Ponte San Giorgio di Genova

2022-07-23 03:50:45 By : Mr. Bill Jiang

La ricostruzione del viadotto Polcevera è stata impegnativa ed ha riguardato tutti gli aspetti che caratterizzano un’opera nuova di grande impegno ma, soprattutto, è stata soggetta a vincoli temporali, operativi ed anche comunicativi, per non dire politici, non comuni nella costruzione di un viadotto pur di grandi dimensioni. La buona riuscita dell’intervento, nei tempi realmente contenuti che hanno stupito l’intero paese, è stata possibile grazie ad una effettiva collaborazione complessiva dei soggetti coinvolti, unitamente all’adozione esperta di ogni possibilità presente nelle metodiche di progettazione ed indirizzata a massimizzare la qualità dell’opera.

L’ingegnerizzazione della idea di Renzo Piano ha suggerito, anch’essa, alcune cautele non comuni nel mondo infrastrutturale e derivanti dalla richiesta di attenzione specifica agli aspetti architettonici di dettaglio, assieme ad una dotazione impiantistica completa e ben organizzata. Il presente articolo illustra, in estrema sintesi, l’intero processo progettuale dell’impalcato, elemento maggiormente caratterizzante. Anche le sottostrutture con le loro fondazioni sono state elementi di realizzazione non sempre agevole, sia per la frequente interazione con le vecchie opere del viadotto demolito, sia per la presenza di innumerevoli vincoli antropici contermini. L’attività di mera redazione del progetto esecutivo è iniziata nel gennaio 2019 ed è finita ad aprile 2019.

Immagini del ponte Genova San Giorgio, durante le fasi di costruzione. 

 La geometria dell'impalcato del ponte di Genova

Il ponte San Giorgio è lungo 1.067 m e scorre a circa 40 m di altezza attraversando la valle del fiume Polcevera che assieme alla valle del fiume Bisagno, meno ampia, caratterizza l’abitato di Genova secondo la ben nota forma a π .

Immagini del ponte Genova San Giorgio, durante le fasi finali di costruzione e il collaudo.

L’asse stradale è sostanzialmente rettilineo, a meno di una stretta curva con raggio di 300 m, posta negli ultimi 250 m occidentali a raccordo con la galleria Coronata, tra la pila P5 e la spalla SpA.

Pianta e sezioni dell’impalcato

Trattandosi di lavori di ricostruzione di un tracciato consolidato (tratto iniziale dell’autostrada A10, iniziata negli anni cinquanta ed aperta al traffico nel 1967, dopo il completamento del viadotto di Riccardo Morandi) e operativo da oltre 50 anni l’andamento dell’opera ha necessariamente dovuto soggiacere ad una posizione delle spalle sostanzialmente immutabile e, pur essendo stato effettuato un millimetrico lavoro di adeguamento ai moderni criteri di progettazione stradale (in termini di rotazione delle falde, inserimento di clotoidi e di allargamenti per visibilità e arresto), non è stato possibile eliminare alcuni limiti preesistenti alla velocità di transito. L’indecisione tra la denominazione di “ponte” o “viadotto” è nel nostro caso estremamente reale; il fiume Polcevera è, infatti, un mero accidente nella sua ampia valle, pur non dimenticandone la violenza idraulica, e il termine viadotto sarebbe, pertanto, più adeguato, tuttavia la parola ponte è più nobile dal punto di vista storico mentre il viadotto è percepito spesso come semplice strumento della scorrevolezza della strada. Useremo, per questo, entrambi i termini con consapevole indifferenza.

Anche l’idea di Renzo Piano scaturisce, in fondo, da questo concetto avendo concentrato le poche luci maggiori, pari a 100 m, a cavallo dell’alveo e ponendo gli approcci su luci di soli 50 m a conferma evidente della centralità del fiume, sovrappassato dal “ponte” a fronte della valle attraversata dal “viadotto”.

La sezione trasversale dell’impalcato, con la sua inconsueta bellezza, nasce dalla volontà di rendere l’opera, per quanto possibile, ugualmente percepita da ogni distanza, e ha un intradosso curvilineo policentrico (raggi 31,14 m e 26 m) con spessore massimo di 4,837 m (inclusa la pavimentazione stradale).

Su una larghezza di ben 29,8 m, comprensivi dei camminamenti laterali, l’interasse degli appoggi è di soli 7 m, contribuendo alla snellezza delle pile che hanno una sezione ellittica con assi di 4 m e 9,50 m.

In apparenza può sembrare che un impalcato così conformato rischi di ribaltarsi a causa delle azioni eccentriche, ma le sue dimensioni, e il conseguente peso, precludono questo rischio nonostante la soggiacenza ad un vento molto sostenuto; solo sulle spalle è stato necessario, e in ogni caso agevole, disporre gli appoggi con un interasse di 17 m per evitare dispositivi reagenti a carico negativo.

L’intero impalcato è in sistema misto acciaio-calcestruzzo e continuo su tutto lo sviluppo compresa la rampa di svincolo che sarà meglio descritta in seguito.

La sezione adottata, sempre di altezza costante, supera luci di 50 m e di 100 m; risulta evidente come questo implichi uno stato di sollecitazione flessionale sostanzialmente difforme, fino ad un quadruplicamento teorico delle sollecitazioni stesse.

Al tempo stesso la complessità geometrica della sezione limita, per contro, la possibilità di variare gli spessori delle lamiere in un ambito molto vasto. A tal fine si è contenuto il peso delle campate da 100 m, gettando una soletta di spessore ridotto (25 cm invece dei correnti 28 cm) su predalle metalliche collaboranti in sostituzione delle predalle in calcestruzzo impiegate altrove.

Nelle campate da 100 m, inoltre, si è adottato, per le parti maggiormente sollecitate, acciaio S460 (Secondo UNI EN 10025-1/2/3:2005).

La continuità dell’impalcato su oltre un chilometro ha imposto anche uno studio accurato di un sistema di vincolamento capace di assorbire le azioni sismiche (in ogni caso relativamente modeste a Genova) unitamente al vento (ben più rilevante) senza trasmettere alle esili pile azioni eccessivamente gravose neppure a causa delle variazioni termiche stagionali. In aggiunta alle suddette necessità analitiche gli appoggi dovevano essere di ridottissime dimensioni per trovare spazio al di sotto delle appendici (che chiameremo “gambe”) di interfaccia tra l’impalcato e le teste delle pile richieste dal concept architettonico.

L’impiego di FPS a singola superficie, con attrito nominale dell’1% ha risposto a tutte le esigenze presenti, contenendo l’ingombro pur con carichi fino a 60.000 kN e scorrimenti fino a +/-400 mm. In ogni caso, sulle spalle, sono state inserite guide prismatiche all’uopo di evitare gli spostamenti trasversali; esse associate a dispositivi multidirezionali sulle pile più prossime hanno efficacemente ottimizzato l’intero isolamento dell’impalcato anche ai fini della sua fruibilità viabilistica.PER APPROFONDIRE LEGGI ANCHE La progettazione del Ponte di Genova: i segreti di un'opera realizzata in così poco tempo Intervista al team di progettazione di Italferr > LEGGI L'ARTICOLOI carichi agenti e la rosbustezza

La progettazione del Ponte di Genova: i segreti di un'opera realizzata in così poco tempo

Intervista al team di progettazione di Italferr > LEGGI L'ARTICOLO

L’eccezionalità dell’opera ha suggerito, prima che imposto, una analisi delle azioni sollecitanti estremamente accurata e anch’essa del tutto infrequente.

I normali carichi stradali da normativa, ad esempio, sono stati integrati dal transito contemporaneo di un mezzo per carichi speciali da 108 t ma, soprattutto, è stata approfondita la valutazione della azione eolica, sia con studi CFD sia con specifiche indagini in galleria del vento.

È, difatti, intuibile come, in prossimità del mare a 40 m di altezza e all’esordio di una lunga valle, la mera applicazione delle formulazioni semplificate possa non fornire una entità delle pressioni agenti realistica. Anche in merito alle verifiche a fatica è stato applicato un principio di massima attenzione impiegando anche lo schema di carico 1 a vita illimitata; il corrente schema di carico 2, infatti, presenta alcuni limiti se utilizzato su sezioni autostradali e luci maggiori di 70 m, così come le verifiche a danneggiamento implicano assunzioni previsionali sullo sviluppo del traffico che ne possono limitare l’efficacia su assi viari im- portanti dopo alcuni decenni.

Oltre alle azioni principali il ponte San Giorgio è soggetto a carichi solo apparentemente marginali che ne definiscono, tuttavia, alcuni elementi in ragione significativa.

Ad esempio, la passerella di servizio esterna alla carreggiata è stata verificata per il carico derivante da un mezzo in svio che può insistere sul cavidotto e al tempo stesso porta il carico del robowash, che è un dispositivo automatico deputato alla pulizia delle barriere in vetro ed alla ispezione del fondo. Il cavidotto è quindi un ponticello a 3 luci con campate da 1,5 m.

In apparenza è un tema poco rilevante, ma la necessità architettonica di mantenere le mensole di supporto snelle e senza piattabande inferiori ha richiesto, anche in questo caso, uno studio di dettaglio.

Poi ci sono i pennoni, citati tante volte, che nell’idea iniziale di Renzo Piano dovevano ricordare le vittime della tragedia. Nel ponte San Giorgio costruito essi diventano elementi di illuminazione della sede stradale posti con passo di 50 m lungo lo sviluppo in asse alla struttura; 50 m è l’interasse delle pile a meno delle tre campate centrali da 100 m, nelle quali i pennoni hanno richiesto la definizione di elementi specifici di supporto essendo posti in mezzeria della campata; con una altezza di 28 m questi elementi richiedono un ancoraggio flangiato che, superando la soletta si ancori direttamente ai diaframmi.

A parte questo, l’inserimento di elementi tra le due barriere spartitraffico ne ha limitato l’ingombro (per garantire la deformabilità richiesta alle barriere stesse) e lo sviluppo tronco-conico individuato ha permesso l’impiego di tubi fino ad un diametro esterno di 500 mm, imponendo l’adozione di tondi pieni torniti per la porzione superiore lunga circa 14 m. Una citazione specifica merita il tema della robustezza strutturale.

Essa è quasi sempre citata nelle progettazioni moderne al fine, specioso, di indurre un pensiero positivo anche se non realmente concreto.

Nel progetto del ponte San Giorgio si è inteso, al contrario, ipotizzare  ed analizzare 5 scenari possibili di situazioni eccezionali che potessero indurre a crisi locali o generalizzate della struttura.

Poiché la ricostruzione del viadotto Polcevera scaturisce dalla tragedia del 14 agosto 2018, abbiamo voluto, ricordando Wittgestein, concepire una struttura che si piega ma non si spezza. Nella scelta degli scenari si è tenuto debito conto, pertanto, sia delle reali esigenze strutturali, sia delle richieste mediatiche (urto di aerei), sia dei dubbi sul crollo del ponte di Morandi (la bobina di acciaio).

Nel primo scenario si è ipotizzata la crisi di un appoggio, ovvero di un baggiolo o di una pila, nel secondo l’effetto dell’esplosione di una cisterna sulla sede stradale, nel terzo l’impatto di un aereo leggero, nel quarto la caduta di un coil da 35 t e infine il cedimento di un remo di sostegno della soletta.

Tutte le verifiche ovviamente sono state condotte con coefficienti parziali unitari. Il presente articolo fa parte dello Speciale ponte San Giorgio che costituisce il numero 4/2020 della rivista Costruzioni Metalliche, dove è stato ampiamente trattato l’argomento, con numerosi articoli. Chi fosse interessato può acquistare on line il numero della rivista.La sezione strutturale dell'impalcato

Il presente articolo fa parte dello Speciale ponte San Giorgio che costituisce il numero 4/2020 della rivista Costruzioni Metalliche, dove è stato ampiamente trattato l’argomento, con numerosi articoli. Chi fosse interessato può acquistare on line il numero della rivista.

Una delle particolarità del ponte San Giorgio, come già ricordato, è la presenza di un impalcato largo 29,80 m ma sorretto da pile larghe solo 9,5 m.

Per ottemperare a ciò, ottenendo una struttura comunque di semplice realizzazione, si è scelto di costruire una cellula centrale portante costi- tuita da un cassone unicellulare con lati di 7 m (larghezza) e 4,467 m (altezza massima, della sola carpenteria metallica) con fondo curvilineo. Uno dei primi problemi connessi a questa soluzione, assieme alla già citata necessità di contenere il peso e utilizzare acciaio S460, è stata la necessità di contenere lo spessore delle lamiere del fondo del cassone entro un limite superiore di 40 mm al fine di poterle curvare secondo la geometria richiesta. Laddove l’area di acciaio risultava insufficiente sono stati rafforzati i rib longitudinali fino ad un valore di 40 mm, giungendo quasi ad un raddoppio della resistenza disponibile. L’assemblaggio a piè d’opera del cassone è stato agevolato dallo studio dettagliato della sua scomposizione in porzioni trasportabili, anche alla luce della costruzione suddivisa tra le officine “navali” di Fincantieri e officine di carpenteria pesante.

Di fatto la coppia di travi, con anime alte circa 4100 mm, è stata costruita in due sezioni e giuntata verticalmente con semplici cordoni d’angolo grazie al posizionamento di un rib longitudinale di appoggio (400x30 mm ricavato da lamiera Z35, unico nello sviluppo dell’anima con spessori variabili tra 20 e 40 mm).

Le piattabande superiori hanno spessore variabile tra 30 mm e 50+50 mm e, solo sulle pile P8, P9, P10 e P11, che sorreggono le campate da 100  m, degenerano in una unica lamiera larga 8000 mm per uno sviluppo di 34 m. Particolare cura è stata posta per la geometria dei cianfrini di tutti i giunti saldati testa-testa delle suddette piattabande costituenti i conci della travata principale. Ciò al fine di ottenere dettagli costruttivi ottimali soprattutto ai fini della durabilità, della manutenibilità e della fatica.

La soletta collaborante (con i correnti pioli Nelson da 22x175 mm), come già scritto, ha uno spessore variabile tra 25 cm e 28 cm ed è gettata con calcestruzzo C45/55; una particolare cura è stata disposta nello studio della fessurazione al fine di individuare le zone che potessero richiedere una armatura insensibile alla corrosione. L’armatura in acciaio inox è stata dunque predisposta nei cordoli laterali e nel cordolo centrale, essendo questi gli elementi della soletta in c.a. maggiormente esposti agli agenti atmosferici.

Se la cellula portante è ben identificata, alcune osservazioni devono  essere approfondite in merito alle porzioni laterali dell’impalcato che sono sostenute da strutture triangolari, essenzialmente “strut and tie”, con sbalzi di circa 10 m.

L’assemblaggio del cassone è stato ovviamente previsto mediante saldatura mentre per le strutture laterali sono stati implementati giunti bullonati in categoria B (secondo UNI EN 1993-1-8:2005); questo anche poiché la posa in opera, a 40 m di altezza, doveva essere più flessibile e libera possibile. Infatti, alcune campate sono state montate completate ed altre, invece, limitate al solo cassone, in base alla possibilità di disporre a terra le autogrù.

Remo laterale bullonato al cassone centrale

La coppia di cellule laterali, specularmente omotetiche, ospita sia i tubi di convogliamento delle acque di piattaforma (non è stato neppure questo un tema agevole, in conseguenza della scelta di fare un viadotto piano lungo un chilometro) sia le passerelle continue che, in numero di tre, consentono l’ispezione di tutta l’opera.

Poiché le lamiere di fondo laterali, a meno delle sezioni in corrispondenza delle pile, non devono svolgere funzione portante (si tratta di una lamie- ra di 10 mm irrigidita solo al fine di mantenerne la forma), nei giunti  tra i conci sono disposti collegamenti a baionetta in grado di trasferire   il taglio, e quindi la continuità dei bordi affiancati, ma non lo sforzo normale. A differenza dei ponti usuali il ponte San Giorgio non ha gli appoggi disposti sotto alle travi dell’impalcato ma presenta una serie di elementi di transizione, le cosiddette “gambe”, alte circa 1,2 m, che ne enfatizzano la leggerezza percepita).

Dal punto di vista dell’ingegnere la geometria di questi elementi in carpenteria metallica, poi caratterizzati secondo superfici a singola curvatura, è un tema complesso che è stato risolto considerando tutte le situazioni di spostamento, prima che di carico, possibili per gli appoggi.

...continua la lettura nel PDF. All'interno i seguenti argomenti:La modellazioneIl collaudo e il monitoraggio strutturale in esercizio

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